Il processo di Verona - 1962 - di Carlo Lizzani
Dialoghi realistici, scene come in un documentario, attori ugualmente identificabili con quelli del periodo storico. Atmosfera cupa e fosca, facce glabre e feroci. Il castello di Verona appare in tutta la sua tetra inquietudine. Questa non è una "storia", è pura Storia che tutti noi dovremmo ricordare o sapere. Nella pseudo tragedia generale del Fascismo quell'episodio finale del processo fu senz'altro tragedia vera; famigliari che si sbranano, cortigiani bramosi di vendetta, dimentichi dei trascorsi poco "storici". Boria, megalomania, superficialità. Le donne, solo loro, hanno una credibilità quasi scespiriana. Edda e Rachele, figlia e madre, sono consapevoli dell'atrocità a cui partecipano, sanno almeno distinguere la farsa e l'intrigo dalla realtà. E l'inviata della Gestapo è una Jago o una innamorata tentata di salvare Ciano? Chi ha vivo il ricordo di quelle persone ne riconosce la vicinanza al vero.
Il generale Del Bono, più di tutti, comprende che il destino per loro è segnato. Scene brevi, dialoghi stringati, nebbia morale ovunque. Si è detto di Shakespeare; ci pare l'unico film che rappresenta "dal vero" l'atto finale. Mussolini fatiscente, sono i crudeli sicofanti e sgherri a dominare la lugubre regia. I dialoghi quasi sempre si svolgono fra due persone in stanze grigie e semibuie o all'aperto lungo viali alberati e spettrali.
Lizzani si è attenuto alla documentazione del momento: affinità dei personaggi, teatralità del processo e per la scena finale della fucilazione, il solo brusio della pellicola che scorre sui corpi crivellati di colpi. In realtà il film svela una tragedia famigliare, più che nazionale. Edda non sopporta che si parli di Storia mentre la sua famiglia viene distrutta. Nel film Ciano parla anche tanto dei suoi diari. A guerra finita si è saputo che essi contenevano ben poco di allarmante per i tedeschi. Una ulteriore prova di enfatica supponenza da parte sua. (Paolo D.)